Andrea Calestani Photographer

el Navili

Successe come due amici che si incontrano. In questo caso un milanese e un parmigiano, intenti a strascicare e arrotare il dovuto le consonanti per lontano imprinting di una Storia matrigna. E forse non è nemmeno un caso che l’incontro si avvii sulla sponda (riva – ripa) dello specchio d’acqua milanese per antonomasia: “el Navili” (il Naviglio). Serioso e compunto, causa nobile genesi d’ingegneria idraulica, per la secolare missione che gli era stata affidata del trasportare, quando altre vie proprio non esistevano.

Di là invece, appena giù dall’Appennino, “la Pärma”. Indisciplinata e volubile (voladóra) come una ragazzina, il torrente che attraversa l’ex “petite capitale” del Ducato. Una speciale simmetria di rare circostanze accomunate, e opposti attraenti. Sponde d’acque ove s’affacciò dapprima un borgo, poi una città. Commerci e manifatture. Arti e mestieri.

Questo per me è stato l’incontro con il Naviglio. Un soggetto da sempre e da tutti fotografato. Ma quelle pose da modella attempata un po’ snob, imbellettata nel crepuscolo nebbioso delle lucine natalizie, oppure infuocata come una milanesissima “Stonehenge” per la complicità di un azzeccato equinozio, non m’interessavano. Ecco perché pure quel giorno tempestoso, di vento e pioggia scrosciante, sono andato a trovarlo. A fotografarlo. Acqua nell’acqua. Senza preoccuparmi di avere solo una mano libera a reggere uno svolazzante ombrello. Per quel che era possibile, era la macchina fotografica da riparare.

Paziente l’ho attesa, l’ho seguita, osservata: la sua gente. Quella che passa di lì tutti i giorni. Frettolosa. Entra, esce, lo scavalca. Non so se lo osserva, tanto è scontato “lui” è lì. Come formiche disturbate intorno al formicaio: su e giù per le scale dei ponti, magari a “lucchettare” qualche scompaginato amore sulla balaustra del “Merini”. Nel viavai ho origliato il vociare per le ripe, appena percettibile a rompere l’iconico silenzio della fotografia. Oppure l’altra gente, allogena. Stordente. Vociante. Onde tumultuose di corpi che invadono ripe e barconi. S’assiepano, sgomitano, assaltano quell’ambìto pulpito appena sopra l’acqua. Laiche sacerdotesse agghindate, dedite a rigeneranti riti pagani dentro una “uninterrupted fashion week” per cangiante movida.

Peraltro, noncurante, per veniale presunzione “lui” sa: loro passano, passeranno. Lui resta sempre lì dov’è, in sembiante immobilità. Tanto è stato lui per secoli ad accudire, con fatica, ogni commercio e bisogno d’ingrandimento della futura metropoli.

Quando ho rimesso l’occhio sullo schermo della macchina fotografica per spingermi un po’ più in là, ho incontrato le sue linee. Il nitore di quei segni geometrici, essenziali all’infinito. Il Naviglio, devo ammettere, ha avuto un diligente e scrupoloso geometra, indaffarato il dovuto a incrociare sulle carte righelli, squadre, goniometri, senza lasciare al caso alcun cordolo delle sue ripe.

Oltrepassata la soglia, l’osservatore potrà rincorrerlo quel segno distintivo. Immaginare che “lui” c’è. Una fotografia però mi è rimasta nell’immaginario. Improvvisa e seducente m’appariva allo sguardo stanco e appagato dell’ultima inquadratura, mai scattata. Un segno dell’arte figlia delle “ripe”: le manone di Gigi Pedroli, intrecciate a reggere spumosi calici per “felici brindisi” specchiati nell’acqua cheta del “Navili”.

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